Vittoria Pasquini
M’è venuto in mente di scrivere “La leggenda di Busby” subito dopo averla venduta Busby, la mia bella casa, anzi “il castello si sabbia” come la chiamavamo ammirando le sue spesse pareti di pietra arenaria.
In parte per nostalgia, mi dispiaceva averla lasciata e non volevo dimenticarla, in parte per rimpianto, già pensavo di aver fatto un errore a venderla e volevo cercare, penna alla mano, di capire cosa era successo, cosa mi aveva portato a quella decisione.
Ci sono voluti vari anni per portare a compimento questo memoir, più di 10 anni con varie interruzioni, la morte di mio figlio Valerio la più tragica ed eclatante, per lui ho coordinato la pubblicazione dei suoi due diari, per lui ho creato un’associazione no profit, per lui mi sono disperata e ovviamente non mi sono più occupata del mio memoir, considerato irrilevante di fronte al dramma che stavo vivendo.
Con l’arrivo del Covid, tempo era passato e molto tempo e solitudine erano presenti a mia disposizione per ripensare a me stessa e alla mia vita. Così La Leggenda di Busby è risuscitata magicamente dai cassetti in cui l’avevo rinchiusa, tolta la polvere ho cominciato a rileggere quel po’ che avevo scritto, a pensarci e a cercare di ricominciare a scrivere.
A quel punto però, l’enormità di ciò che era accaduto, la morte di mio figlio cioè, pesava come un macigno sulla mia memoria, l’offuscava, non potevo ricordare ciò che era successo prima dell’annus horribilis, la mia vita a Busby appariva avvolta da una coltre pesante di nebbia, tutto sembrava insignificante rispetto alla Grande Tragedia.
C’è voluto molto per riconnettermi con la Vittoria che viveva, lavorava, provava emozioni, scriveva prima della scomparsa del suo amato figliolo. È stato un lungo processo, eppure, il cercare di ricordare, tra le altre cose, il tempo in cui Valerio era ancora piccolo, poi adolescente e finalmente un giovane uomo, il tempo meraviglioso e indimenticabile in cui lui era ancora vivo, è diventato un processo di cura e guarigione per il mio cuore spezzato.
Piano piano, anno dopo anno, il memoir ha preso forma e io ho riabbracciato il mio passato, i ricordi mi hanno dato gioia ed entusiasmo per la scrittura.
Così è nata La Leggenda di Busby.
Il libro si muove attraverso vari livelli intersecati (amo le complicazioni):
il personaggio principale è il castello, che viene descritto in tutti i suoi più piccoli dettagli, ogni luogo ha un’energia differente, ogni luogo evoca memorie di qualcosa d’altro.
Nella prima parte del libro il castello casca a pezzi. Avrebbe dovuto essere ristrutturato ma l’ improvvisa inaspettata mancanza di denaro costringe gli abitanti a viverci così com’è, fascino e decadenza rimangono la sua maggior caratteristica. Nella seconda parte il castello viene restaurato e descritto di nuovo nei suoi nuovi cambiamenti;
il secondo livello è la storia della famiglia che comincia a vivere a Busby quando il l’uomo/il padre è già gravemente malato. Questo è il breve Prologo seguito subito dopo da Il Ritorno: madre e figlio lasciano Canberra dove lei ha lavorato per 6 anni alla Australian National University dopo la morte prematura del marito e ritornano a Sydney dove la figlia era rimasta nel castello con un’amica di famiglia. Il fidanzato della figlia si aggiunge a loro poco dopo.
Comincia così la vita insieme di questo piccolo gruppo, una sorta di comune legata dall’affetto;
il terzo livello sono le “Voci fuori Campo”, i numerosi amici e conoscenti che vanno e vengono dalla casa, alcuni si fermano per un caffè, un pranzo, altri per un fine settimana, altri più a lungo. Questo Coro di voci multiple compare quattro volte nel libro e narra i desideri, i sogni e le ragioni per cui molti italiani espatriati decidono di stabilirsi in Australia all’ inizio degli anni ’80, gli alti e bassi della loro permanenza Down Under e l’influenza che la politica del tempo ha nelle loro decisioni di stare o ritornare nella madrepatria;
l’ultimo livello è quello delle memorie, una sorta di “stream of consciousness” che sbuca qua e là in connessione con varie situazioni, immagini, alcuni odori, la luce particolare di una stanza. Memorie delle altre vite della narratrice (la donna/ la madre/ lei) a Roma, la sua attività politica, il suo coinvolgimento femminista, il suo altro lavoro di fotografa, le altre case in cui ha vissuto in Kenya, negli USA, in Algeria.
Il libro è scritto in terza persona, io ho sempre scritto così, trovo che questa scelta mi permette di distanziarmi da me stessa e in questo modo riesco a essere abbastanza oggettiva.
La donna descrive cosa succede nella casa, in famiglia, dentro di lei, i suoi tanti errori, le insicurezze, le difficoltà di essere una buona madre con due figli e due padri assenti. All’ inizio del memoir fa molta autocritica, poi man mano che approfondisce le riflessioni su se stessa, comincia a capirsi e a capire i perché del suo essere quella che è e alla fine può guardarsi con una certa tenerezza.
Lo stile del memoir alterna descrizioni concise di quello che succede nella casa e nelle vite dei personaggi principali a flussi di emozioni, di memorie, di sogni e pensieri attraverso lunghi paragrafi con punteggiatura minima per dare spazio alla lettrice di scegliere quando fermarsi e riprendere fiato.